Digital Detox - Come disintossicarsi dalla tecnologia. 1

Digital Detox – Come disintossicarsi dalla tecnologia.

Questo non è il solito articolo giornaliero che riguarda un prodotto, un software o un nuovo annuncio di una casa produttrice. Oggi vi parleremo di una storia che ha fatto riflettere noi del gruppo di Social And Tech i nostri amici e speriamo faccia riflettere anche voi. L’unica cosa che vi consigliamo è di godervi la vita reale, senza dare troppo peso a cosa succede nel virtuale specialmente alle “persone” che si incontrano durante il nostro cammino lungo la rete.

BUONA LETTURA

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Levi, solito talento californiano capo di una startup hi-tech di Los Angeles a poco più di 20 anni, ha fatto della sua malattia un business. Si trovava nel vicolo cieco della dipendenza da mac, telefono, mail; attaccato alla macchina della sua generazione, intesa come hardware e software e insieme meccanismo che permette di fare soldi in poco tempo. «Stavo 60-80 ore alla settimana davanti a un computer, avevo 24 anni e mi sentivo già bruciato. Fa dunque quello che molti giovani americani fanno in questi casi: lascia routine e giocattoli, prende la fidanzata e va. Il sabbatico diventa due anni a Koh Totang e un lavoro a Nomads land, vacanze di natura e nulla in un paradiso della Cambogia. Qui nasce l’idea di vendere benessere lontano dalla tecnologia, la promessa di «disconnettersi per riconnettersi». Fonda un’azienda nel giugno 2012, si chiama Digital Detox, disintossicazione digitale: circa 2mila dollari per sei giorni in gruppi da 12 che rinunciano a telefono, laptop, orologi; obiettivo: «formattare la mente».

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Nella formula commerciale di Levi non v’è nulla di rivoluzionario: si vende lentezza – yoga e meditazione a posto di Facebook e Twitter – e recupero di gesti sempre più rari o perduti: niente blog e microblog, in mano foglio e penna, un giornale di carta. Non manca il contorno pauperista-ambientalista-ritorno-alla-natura: l’acqua è solo quella piovana, la luce è del sole ma a ben leggere questa è la scontata confezione che serve a vendere meglio il prodotto. Parte più interessante della proposta Levi non è disintossicarsi dalla tecnologia in sé – il problema non è il mezzo – ma «dai gigabyte che gli americani ingeriscono ogni giorno». Una bulimia di notizie e spunti che non apre ma ottunde il cervello. «Quando ricevi troppe informazioni non riesci più a pensare liberamente» teorizza Levi che non sembra affatto un offline scettico e disfattista restio all’innovazione e – il più temibile non detto di tutte queste accuse – vecchio luddista moralista amante dello status quo. È un giovane uomo che sa ciò di cui parla, un blogger dell’Huffington Post che di web vive.

Il nuovo business pensa anche ai casi più seri, Zeni Cosini senza alcuna forza di volontà: offre loro vacanze “dead zone”, la zona morta che non è Stephen King ma posti in cui il telefonino non prende o la connessione è così lenta che desisti e per sfinimento concludi: meglio spegnere; Skyscanner, sito di offerte low cost, dà destinazioni sicure: Death Valley National Park negli Stati Uniti, Kent e Sussex in Gran Bretagna.

Mentre innovatori come Levi monetizzano il contrasto fra FOMO (Fear of missing out, la paura di rimanere esclusi tipica dei web dipendenti, e ne conosciamo di parecchi) e JOMO (Joy of missing out, all’opposto la gioia dell’oblio).

Perché la disconnessione sarebbe terapeutica? «Questa fetta di popolazione – si afferma nello studio- non ne vuole più sapere di stare a guardare le vite degli altri». Nulla di nuovo insomma ma in America c’è chi invoca e auspica una Slow Technology. Recentemente Huffington ha detto «il bisogno di riconnettersi con noi stessi disconnettendosi dai nostri apparecchi elettronici non è questione da poco in un mondo che ha disperato bisogno di soluzioni creative a diversi tipi di crisi. Un mondo – dice Guru Arianna – con troppi dati, troppe scelte, troppe possibilità e troppo poco tempo che ci constringe a decidere cosa è importante». Un po’ come se a un certo punto Steve Jobs da vivo avesse detto «tornate all’aratro».

Negli stessi giorni l’inglese Telegraph si poneva il problema della dipendenza dei più piccoli: Judith Woods racconta che la figlia di 10 anni d’improvviso le ha dato l’iPad dicendole: «Tieni, non lo voglio più, mi deprime, mi sento triste e non so perché». Il gran rifiuto della decenne ha messo la madre davanti al dubbio: noi generazione di genitori middle class abbiamo tanto lottato per non fare crescere i nostri pupi davanti alla tv e non ci siamo preoccupati dei danni da altro schermo? La strada della madre in ansia si incrocia con quella di Helen Wright che sul Sun del 7 aprile scrive il suo diario-Bridget-Jones da ex tecnodipendente. Entrambe indicano lo stesso indirizzo: Capio Nightingale Hospital, Marylebone, Londra, reparto Technology Addiction Service.

Consapevole del problema, Helen si presenta con nome, account e numero di follower – ché non è una cosa da confessare in società ma insomma: il numero di amici e follower conta, è un criterio di valore, lo share nella rete, qualcosa dovrà pur dire. Wright racconta una dipendenza che intreccia ricerca compulsiva di informazioni e gratificazione da social network, somma di like e retweet, un quadro non troppo diverso da ciò che ha mosso l’idea imprenditoriale di Felix Levi. Helen è una giovane donna che appena sveglia non cerca doccia, colazione, caffè ma il cellulare per controllare cosa è successo in rete nella notte. Le vengono le palpitazioni se non può entrare su Facebook ogni cinque minuti, e sa di non essere sola: cita recenti statistiche secondo cui sempre più persone controllano il proprio telefono ogni sei minuti, vale a dire 200 volte al giorno. Uno su quattro ammette di dedicare più ore al web che al sonno, il 73 per cento riconosce che non riuscirebbe ad affrontare un giorno intero senza telefono o computer. .

La cura è stata diminuire le dosi, mai accendere il pc prima di colazione, interruzioni online dieci minuti ogni ora e mezza; niente iPad a letto, causa anche di rotture con fidanzati. L’ottimo sarebbe pure evitare la tv nella stanza da letto perché i dottori ipotizzano il salto: una droga leggera (tv) induce a provare quella pesante (online), meglio evitare entrambe prima di andare a dormire. Wright prova per due giorni, le dicono che deve riuscirci per tre settimane, creare una nuova abitudine: ce la fa, dorme meglio, fa colazione senza guardare il telefono, resta la voglia di controllare Facebook nelle ore diurne, dose media giornaliera concessa dal dottore.

Se siete arrivati sino a qua non vi resta che dirci la vostra opinione grazie

 

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